Se Barioli non fosse esistito, al “mondo” del judo italiano sarebbe mancato la parte più importante “L’EDUCAZIONE” e” L’ENTUSIASMO DEL FARE E DEL DARE” Ogni judoka ed insegnante che si ritiene tale doverebbe leggere e rileggere questi scritti.
Il Judo educativo; in Giappone ieri e in Italia oggi
di Cesare Barioli
Conferenza tenuta nell’Università dell’Aquila il 23/11/1999
Per gentile concessione del sito: Scuola Judo Tomita
“Vi chiedo di scusarmi, ma inizio con una nota biografica. Nel mio biglietto da visita c’è scritto: insegnante di judo. Non ho titoli da elencare o incarichi sociali da vantare. Per quanto riguarda il judo (“via dell’adattabilità”), la disciplina che ho praticato per quasi mezzo secolo di vita, è stata creata da un professore e burocrate giapponese (Kano Jigoro) nell’intento di proporre una nuova educazione, che non ha a che fare con la disciplina olimpica promossa in Occidente. Inoltre vorrei anticipare un’obiezione: non sono un apostolo dell’Oriente, continente che cerco di comprendere, ma non mi sogno di accettare passivamente. E ora vorrei sottoporvi a un corso intensivo di judo, perché sia più chiaro il contesto di quanto voglio dire.
Uno degli artefici della configurazione scolastica del Giappone nel XX° secolo, Kano Jigoro, ha inserito un principio morale universale in un’arte di attacco e difesa nata nel periodo feudale giapponese, il jiu-jitsu, reso ormai obsoleto dalla struttura sociale e dalla diffusione delle armi da fuoco. Quell’arte feudale di autodifesa è stata così trasformata in una disciplina educativa di straordinaria rilevanza, che ha un profondo significato morale. Il rilievo storico e sociologico del judo educativo dovrebbe essere trattato a parte e a lungo. Nella vicenda del judo educativo si rispecchia una parte importantissima della cultura giapponese. Mi limito ad alcune osservazioni di larga massima, sviluppando soprattutto gli insegnamenti che ho tratto dagli anni passati nella interpretazione, traduzione, pubblicazione dei testi classici del judo educativo.
Il judo fa convergere le parti dissociate dell’essere umano in una direzione ideale. Noi diciamo che unifica corpo, mente e cuore nella direzione del principio morale definito come “il miglior impiego dell’energia”. Questa suddivisione dell’essere umano in “corpo, mente e cuore” è empirica. Per “cuore” intendiamo quello che altri hanno chiamato anima, spirito, affettività. Per “mente” intendiamo uno strumento calcolatore abbinato a una raccolta di immagini. Per “corpo” intendiamo proprio il corpo, nella sua fisicità e materialità.
Ora, il motivo per cui il judo ha storicamente assunto la dimensione di una lotta, è che il guerriero ha scoperto (e, soprattutto, il guerriero giapponese ha conservato questa scoperta fino a noi) che nel pericolo dì essere tagliati in due da uno spadone, l’essere umano unifica le sue facoltà nel saltare di fianco. Voglio dire che, in tale circostanza, nel gesto difensivo o nel contrattacco, non ha esitazioni inconsce, subconscie,o dettate dal super-io. Naturalmente chi giungeva per tempo a questo segreto arrivava ad invecchiare e insegnava alle giovani leve i suoi segreti. Chi commetteva un sia pur minimo errore nella capacità di unificare l’essere al momento del bisogno, finiva concime ai gelsi di campagna.
Se mi concedete una licenza audace, farò un esempio pratico che illustra bene la differenza tra corpo, mente, cuore. Un giovane cerca la via spirituale. Evidentemente il cuore mira a quest’ideale. In seminario gli spiegano che è necessaria la castità e la sua mente capisce: quindi cuore e mente sono d’accordo. Ma nessuno ha preso in considerazione il corpo, e il giovane si sveglia al mattino con una manifestazione virile impressionante. La via spirituale intrapresa diventa un tormento. In questo contrasto tra il corpo da una parte, e mente e cuore dall’altra, con guasti per entrambe le parti, può essere danneggiata la salute, ma anche la funzionalità cardiaca e le stesse funzioni mentali fondamentali. Osservate alcune discipline spirituali orientali come lo yoga o il buddhismo-zen: esse iniziano disciplinando il corpo. Per questo aspetto la cultura orientale è decisiva.
Perché il corpo ci mette mesi o anni a capire, quando la mente impiega giorni o settimane e il cuore, con le sue misteriose ragioni, può comprendere in un lampo? Permettetemi di riprendere una nota iniziale, riaffermando che non propongo l’imitazione delle esperienze orientali. Le considero “cultura” e sottolineo l’importanza di un principio: “bisogna prendere dall’esperienza umana le cose positive e scartare quelle negative”.
Scusatemi se sarò un poco estremista nel riassumere le mie idee, ma è per me importante sottolineare che abbiamo ricevuto un’educazione razzista. Personalmente ho constatato le differenze esistenti tra gli esseri umani, che a un certo livello possono costituire caratteristica di razza. Non ho nulla in contrario a riconoscere la superiorità fisica dei neri, la sensibilità dei gialli, le facoltà psichiche degli aborigeni australiani e lo strapotere militare dei bianchi che spesso hanno schiavizzato i primi, drogato con l’oppio gli altri, distrutti gli ultimi. Ritengo che il significato negativo che attribuiamo alla parola ‘razzismo’ riguardi la presunzione di considerare una certa razza superiore in assoluto.
Premesso questo, osservo di aver ricevuto un’educazione di parte, che mi ha inculcato i nomi di sette capitribù chiamati Re di Roma, ma ignorando il più duraturo e glorioso impero della terra, quello cinese, che ha creato, senza depredare i vicini, opere d’arte davanti alle quali il Colosseo quasi scompare. Ho ricevuto un’istruzione che valorizza l’Eneide, la Divina Commedia e l’Orlando Furioso, completamente ignorando il Mahabharata, il cui nucleo Vyasa comprendeva migliaia di versi quando noi occidentali non sapevamo ancora scrivere nemmeno quel poco che era necessario per censire la consistenza del gregge.
Da solo ho dovuto scoprire l’influenza che la sottocultura giapponese (la grande cultura dell’Oriente è cinese) ha avuto nella seconda metà dell’800 sulla pittura moderna, attraverso il fenomeno del “japonisme”. E da solo profetizzo che in questo secolo cambierà profondamente la nostra musica, aprendosi alla pluralità dei suoni, al di là delle sette note di Sono un italiano vero che tanto successo ha ottenuto da vincere un festival (la musica indiana, o i suoni ‘yin’ e ‘yang’ di quella cinese potrebbero aprire le porte di una nuova sensibilità).
A tredici anni chiedevo perché dovessi studiare latino. “Per sviluppare la mente” , rispondevano. A volte chiedevo: “Il tedesco non andrebbe meglio?” Silenzio. Una lingua viva avrei potuto usarla; anche le relazioni umane aiutano a sviluppare la mente. Oltretutto mi resi conto che grandi benefattori del ’900 (ad esempio Albert Bruce Sabin, o Muhammed Junus) non avevano studiato il latino, ma che la certezza della superiorità greca e latina forniva una giustificazione ideologica per quel colonialismo a cui siamo giunti fuori tempo massimo.
Come consolazione, la certezza della nostra superiorità fornisce volontari per “missioni di pace” in Somalia, dove soldati moderni hanno usato un razzetto per interpretare la prerogativa virile del più forte (è inevitabile, mi hanno detto).
Allora (al mio liceo), spiegavano che senza greco e latino non si poteva accedere a Medicina, perché non si sarebbe potuto comprendere da dove derivasse il nome dei medicinali. Io, studente lazzarone, guardavo incredulo questi insegnanti che per stipendio lavavano il cervello ai futuri dirigenti del Paese. Aggiungo che 600 vie della mia città sono intitolate a musici occidentali e nessuna a personaggi di altra razza.
Attenzione, questa critica al passato non vuole condannarlo: ho rinunciato alla prerogativa mediterranea del Giudizio. La Storia mi serve per vivere il presente, in cui mi pare che abbiamo raggiunto un livello di sviluppo che potrebbe permetterci di vivere meglio e di accettare le grandi sfide che l’inquinamento, la sovrappopolazione e la nostra mentalità di supremazia ci pongono.
Abbiamo bisogno di una svolta nell’ educazione?
Ho affrontato la lettura dei testi spesso propinati alle future maestre. La pedagogia moderna comincia con J. J. Rousseau. E io mi son letto (in francese, perchè in italiano è stato pubblicato con un ritardo sospetto) La Nouvelle Eloise, chiedendomi chi fosse questo autore. Ad una prima indagine, mi risulta che avrebbe avuto 5 figli da una signora (ritengo altri da altre), bimbi che non ha visto perchè alla nascita li ha puntualmente fatti consegnare al brefotrofio. Pentitosi, dopo qualche anno li ha cercati, ma erano morti. La sua fama sembra dovuta alla lotta tra l’Illuminismo e la Chiesa.
Proseguendo ho scoperto che gli educatori celebrati, da Pestalozzi a Makarenko (finalmente un picchiatore!), dalla Montessori al commovente Korczak, fino al decano dei prof. di educazione fisica Vittorino da Feltre, sono state persone che hanno tolto le castagne dal fuoco al sistema, occupandosi di giovani derelitti, orfani, profughi di guerra, disabili.
Persino un mio carissimo capo-scout Bertolini si è fatto un nome nelle Scienze dell’Educazione proveniendo (come Direttore, intendiamoci) dal riformatorio Cesare Beccaria. Il professor Bernardi mi ha raccontato che Piaget prendeva a calci i nipoti perché contravvenivano alle sue teorie.
La mia tesi è che il modello dell’educazione è fornito da noi genitori allevando dei figli considerati normali; e ad esso si devono avvicinare i casi più disperati di alterazione del gruppo familiare. Cioè: gli educatori siamo noi e Rousseau farebbe bene a leggere qualche nostra raccomandazione.
Noi, la razza umana, sappiamo benissimo come intervenire nella formazione dei cuccioli. Come genitori ce la siamo in qualche modo cavata e come educazione di massa, ogni ideologia ha saputo fare dei fanatici, ogni religione dei martiri, ogni esercito degli eroi, ogni divinità dei santi, ogni sport dei campioni, ogni Stato dei lavoratori.
Fin’ora abbiamo lavorato efficacemente, ma forse in una direzione che alcuni potrebbero non condividere. Chi sono i nomi di culto del secolo trascorso? Nel bene o nel male l’austriaco Hitler; il sovietico Stalin; l’argentino Guevara; l’albanese Teresa; il cinese Mao; questo Papa polacco…E nel quadrilatero della presunzione? che cosa hanno oggi prodotto quelle scuole che un tempo avevano prodotto i filosofi tedeschi, gli artisti francesi, i colonialisti inglesi, i mafiosi italiani?
Visti i progressi fatti in questo secolo, dal volo di 266 metri dei fratelli Wright allo sbarco (forse) su Marte, dal pallottoliere al computer, alla clamorosa sconfitta di tantissime malattie, si potrebbe immaginare che molti progressi sono stati fatti nell’educazione (pardon, nelle Scienze dell’Educazione)! Dovremmo aver prodotto almeno venti Lawrence d’Arabia, trenta Cleopatre, una decina di Giulio Cesare, qualche Leonardo da Vinci…
No. Fatemi fare l’estremista fino in fondo. Abbiamo prodotto una massa di lavoratori puntuali a timbrare (ai quali però tratteniamo le tasse all’origine) divisi tra esagitati che si realizzano sugli spalti e depressi che si godono in colonna l’autostrada. Il progresso c’è stato. Nella vecchia Europa non c’è confronto di uomini e donne con il passato. A mio parere, la realizzazione individuale è stata soffocata. Diffondendo il nostro progresso scolastico soffocheremo sul nascere i possibili Gandhi, Picasso, Confucio e Gautama Buddha dei Paesi esotici. Soffocheremo anche tutte le specie che non produrranno per il più forte.
Come si soffoca la personalità.
Nel mio settore, spesso denominato “arti marziali” (denominazione che rifiuto per il judo), per creare un essere che produce energia fisica e disponibilità a pagare, senza ribellione, gli si prospetta un sistema di gradi che lui potrà conquistare se pratica e riproduce alla perfezione degli esercizi complessi che vengono chiamati kata, o forme. Chi li ha composti? Non si sa. Come si applicano? Non vi è risposta. Si devono fare. Ecco la disciplina. Se uno vuole accedere alla dignità e al rispetto dovuto a un 5° grado di esperto, si dedica per una decina d’anni a questi kata, senza fare domande, senza esprimere un parere. Li fa e basta. Naturalmente dieci anni dopo l’allievo raggiunge l’obiettivo che lo gratifica ed è nella condizione di obbedire al capo-scuola sicut cadaver.
Questa scoperta è avvenuta in Oriente, o da noi? Non saprei. Certo è che al liceo mi hanno fatto studiare cose che mai mi sono servite nella vita, sottoposto a una pressione combinata di prof., compagni, famiglia, allettato da un voto che mi avrebbe permesso di alleviare questa pressione.
E’ avvenuto in parallelo alla costrizione di andare a scuola obbligatoriamente a sei anni, mentre potrebbe apparire logico che si affronti questo passo in ragione del livello di sviluppo individuale.
Certo, viene il sospetto che dopo essersi applicati a molte cose di cui non si comprende l’utilità, fra i 6 e i 23 anni, ci si avventa nella vita completamente domati e il sistema concede il contentino finale di dare maggior credito al laureato, concedendogli di sentirsi superiore al magutt (muratore da quarta elementare).
Una proposta educativa
Se l’educazione è andata in un senso, parlandone insieme, definendola e quindi attuandola, potremo modificare il corso di questa Storia, riappropriarci del destino e offrire ai nostri figli e nipoti un mondo adeguato al loro livello di sviluppo. Espongo in cinque punti la mia proposta di insegnante di judo.
1) L’educazione nasce per insegnare ad affrontare la realtà.
Ogni genitore prepara il suo cucciolo ad affrontare la realtà. Ho osservato questo nell’animale selvatico e ne ho sentito parlare da Alberto Manzi relativamente agli indigeni dell’Amazzonia. Mi pare che una svolta è stata attuata da Platone (La Repubblica) quando raccomanda agli educatori dei futuri ‘custodi’ di non raccontare ai bimbi le avventure licenziose degli dei, che potrebbero ispirarli da grandi, distraendoli dalla vita di austerità che lui auspicava per la categoria; da Platone in poi troppo spesso l’educazione è uno strumento del potere.
2) Non c’è educazione senza trasmissione di un principio morale.
Io non posso trasmettere a mio figlio l’esperienza con cui io ho affrontato il problema sessuale, perchè allora non c’era l’aids; mio padre ha dovuto adattare le sue conoscenze fotografiche ai nuovi tempi, perchè in gioventù stendeva sulla lastra un’emulsione idonea all’immagine che voleva ottenere (per esempio paesaggi nebbiosi in pieno sole). Ma se comunico ai giovani Il Miglior impiego dell’Energia e propongo loro le prime esperienze in tal senso, poi sarà semplice, con l’insegnamento, dare nozioni applicative adeguate.
Semplicisticamente, possiamo dire che spesso quando nella Storia abbiamo fatto qualcosa di buono, abbiamo applicato Il Miglior Impiego dell’Energia. Questo principio è di grandissima importanza pratica e morale.
3) Occorre presentare questo principio morale innovativo ad un Occidente che ha sempre avuto “verità rivelate”.
Se noi mettiamo insieme dei bambini di cinque anni, arabi ed ebrei, bianchi e neri, figli di comunisti e fascisti, dopo un quarto d’ora giocheranno insieme. Ritrovandosi vent’anni dopo probabilmente si uccideranno, come dimostrano gli oltre 40 conflitti in atto nel mondo.
Cos’è successo nel frattempo? Abbiamo dato loro un’educazione di parte (secondo le aspirazioni del potere di turno) religiosa, etnica, o politica. Se noi adottassimo per tutti il principio morale di Il Migliore Impiego dell’Energia, guidandone le prime esperienze durante l’età ricettiva e facendo scoprire che Il Miglior Impiego dell’Energia è: tutti insieme per Crescere e Progredire, arrivati a vent’anni questi giovani potranno prendere coscienza delle proprie tradizioni etniche, religiose e politiche e trapiantarle sul Principio Morale Universale che costituisce la base della loro educazione, arrivando a litigare com’è giusto per l’affermazione delle idee, ma senza uccidersi. Diminuirebbero di molto le guerre.
4) L’educazione a Il Miglior Impiego dell’Energia suppone l’unificazione di mente, corpo e cuore.
Istruttori sportivi e professori di educazione fisica possono rivolgersi al corpo; mentre gli insegnanti di materie intellettuali, che parlano da dietro la cattedra, raggiungono solo la mente. Si propone una concezione rivoluzionaria dello sport e dell’educazione fisica, con adeguata rivalutazione degli operatori. Alcune discipline sportive dovrebbero essere scartate da questo processo, altre dovrebbero modificarsi; certamente l’ideale olimpico andrebbe accantonato, o riservato all’ingresso al professionismo. L’educazione fisica dovrebbe essere rivoluzionata (negli anni ’60 l’Isef ha scartato il judo, sesto sport nazionale per numero di praticanti, dai suoi programmi perché disciplina extraeuropea, chiarendo che le stava più a cuore il razzismo strisciante che il sereno esame di cosa poteva giovare ai ragazzi). Una definizione di educazione fisica si potrebbe così formulare: essere sani per essere utili. Rivediamo il basket, il body building e, naturalmente, il football.
5) Il judo è parte di questa proposta educativa.
Gli occidentali hanno accettato il judo nel dopoguerra quando, da una parte non erano disposti a farsi dare lezioni di morale dai giapponesi, e dall’altra questi ultimi avevano bisogno di uno sport nazionale per creare l’immagine del nuovo Giappone. L’accordo fra le due parti ha trasformato il judo in uno sport olimpico in cui si cerca di vincere ad ogni costo per l’onore del gruppo di appartenenza e non disdegnando il premio in danaro. Le conseguenze dell’educazione sportiva sono particolarmente evidenti in Maradona (il campione più conosciuto al mondo), Tyson (il più apprezzato) e Tomba (onore e vanto della nostra Penisola sciatrice).
Il creatore del metodo judo non voleva che tutto il mondo lo praticasse, ma lo proponeva come esempio: inserendo in un’arte di autodifesa il principio morale, questa si trasformava in una disciplina educativa. Ci ha chiesto di inserire il principio morale nella scuola, con lo sport, con gli oratori, con i boys scout.. Dovunque troviamo delle attività per i giovani.
In pratica, come agisce il judo? Uno dei suoi motti è “dare per crescere e crescere per dare di più”. La struttura del judo è descritta come: un fondamento che è insegnare a combattere, le pareti della costruzione sono essere sani per essere utili, e il tetto è costituito dal principio morale del Miglior Impiego dell’energia.
Tutto comincia con un saluto, che è un rito per fissare l’attenzione,
Poi, dietro la facciata superficiale di studio delle cadute e perfezionamento delle tecniche di pugno e calcio, delle proiezioni e della lotta corpo-a-corpo, il giovane affronta un periodo in cui l’obiettivo è dare tutto se stesso al judo. Dopo questa esperienza egli sarà in grado di dare tutto se stesso a qualsiasi obiettivo si proponga: la famiglia, il lavoro un’impresa, la soluzione di una crisi.
Il momento successivo porta a dare tutto se stesso con il judo. Comporta incontrare l’altro e poter lavorare e costruire insieme a lui, disponendo dell’istruzione ricevuta.
Il terzo passo è dare tutto se stesso agli altri, cioè la comprensione del principio sociale: si sta insieme per costruire un mondo migliore. Non uso volutamente il termine “si lavora”, perché il verbo “lavorare” è stato interpretato come fare qualcosa per un salario o stipendio e il judoista non lavora in tal senso, ma contribuisce a migliorare il mondo sociale. Solo incidentalmente incassa dei soldi che gli servono per vivere.
L’ultimo passo insegnato dal judo ha una configurazione esoterica. Si tratta di raggiungere lo stato del dare, un modo di essere che acquista realtà dopo aver mosso i primi passi sulla via.
Da judo-educazione a sport-educazione
Attualmente in Italia una trentina di associazioni di judo (2.000 praticanti) praticano la proposta educativa del judo e altrettante ne accettano alcuni aspetti come l’insegnamento a disabili (alcune categorie di disabili mentali e fisici, non vedenti e non udenti), a giovani disadattati (condannati, o a rischio), a comunità di recupero.
La buona volontà naturalmente non basta e spesso si sono verificare situazioni difficili dovute all’incomprensione dell’autorità. Abbiamo ottenuto ottimi risultati occupandoci dei disabili mentali, nonostante la mancanza sia di una struttura assicurativa (la nostra politica è stata: non incorrere in incidenti), sia di una collaborazione medica (in questo caso abbiamo sfiorato il reato), sia di un riconoscimento ufficiale (sarebbe opportuno che il Ministro chiarisse agli operatori del sistema che la nostra suddivisione empirica in psichici, caratteriali e dawn con ritardati, non possono essere messe insieme, a scanso di guai).
Mediocri risultati abbiamo ottenuto con il sistema carcerario minorile. Una delle difficoltà è l’accesso alle cartelle mediche per sapere quale allievo (il 50%) è siero positivo. Nel judo ci si graffia, anche… Un’altra sono i pidocchi che ci portiamo in palestra. Meglio ci sta andando con i giovani teppisti di buona famiglia, perchè spesso è il giudice minorile, contrario alla galera, che preferisce condannarli a due anni di judo presso un buon insegnante. La cosa è sperimentale. E imbarazzante.
Nelle comunità di recupero per tossico-dipendenti, la difficoltà è economica: vi sono delle spese che la comunità non vuole o non può affrontare; mentre assorbire questi utenti in corsi normali richiede la garanzia che non siano sieropositivi e comunque la segretezza, perché la gente li rifiuta. Vi è anche la constatazione che il judo non interessa per la debilitazione fisica e per la mancanza di una promessa di impiego attraverso di esso.
L’esperienza con i disabili mentali ci ha portato ad organizzare buone gare e dimostrazioni, che giovano ai ragazzi insieme alla disciplina di palestra e ai concetti assimilati dalla pratica; ci siamo aggiornati con una serie di congressi internazionali dove abbiamo appreso dai francesi (molto avanzati nel settore) e abbiamo insegnato ad altre nazioni arretrate rispetto a noi. Nell’attività incontriamo una difficoltà nella competente federazione del Coni che, applicando il regolamento sportivo, espone a gravi rischi (documentati da incidenti) i ragazzi; e spingendo la proposta delle para-olimpiadi (che noi non ammettiamo per i disabili mentali) crea un effetto contro-educativo.
Vorrei aggiungere che comunque il sogno di portare i disabili meno gravi ad un’autosufficienza che li renda relativamente indipendenti dalle famiglie (affrontata in Francia con un discreto successo) è remoto e passa per un diverso approccio al disabile da parte di tutti gli operatori coordinati. Ciò che invece abbiamo indiscutibilmente ottenuto da questa esperienza è una notevole crescita umana dei normodotati che sono stati, più o meno a contatto con i disabili. Cosa che ci ha fatto postulare una comunità di recupero per normodotati gestita da disabili…
Le proposte per trovare alleati e compagni in altre discipline sportive sono finora cadute nel vuoto. Tuttavia sappiamo che il processo di coinvolgimento passa attraverso un riconoscimento ufficiale e, in attesa di questo, continueremo a lavorare.